mercoledì 25 gennaio 2012

VENDOLA ALL'ASSEMBLEA DI SEL 1°

EUROPA: ROMPIAMO IL RECINTO
Un pensiero politico-programmatico alternativo a quello dominante
dal sito di SEL parte del discorso di Nichi all'Assemblea nazionale

C’è una girandola di domande che ruota attorno alla politica, ma la politica discetta dei vizi e delle virtù dell’animo umano. Noi sentiamo come insopportabile il tentativo violento di rimuovere, di abolire quelle domande. Non è previsto un calcolo dello spread sociale, o ambientale, o culturale. Noi quelle domande le vogliamo ascoltare: investono persino il senso del vivere associato. Chiamano in causa le prerogative del genere umano anzi umanizzato, prerogative smarrite nei labirinti dell’individualismo celebrato dalla Lady di quel ferro liberista che ha percosso le nostre comunità di lavoro e di sentimento. Noi le dobbiamo sapere intendere, sondarle, tradurle, quelle domande. Non sfuggire alla loro radicale politicità, non buttarla in filosofia. Provo di ricordarne alcune. Perché non si investe sulla prevenzione, sulle bonifiche, sulla messa in sicurezza del territorio, di quello naturale e di quello urbano, su un piano sistematico di rassetto idro-geologico, di pulizia dei corsi d’acqua, di cura dei boschi, di recupero e rivitalizzazione dei piccoli borghi, di riqualificazione sociale e ambientale delle periferie delle città, di cura delle montagne e delle colline, di protezione di quelle coste sempre più aggredite dal cemento e dall’erosione, di riorganizzazione democratica e razionale dei modelli di governance di un “bene comune” come l’acqua che viene minacciato dagli sprechi e dalla scarsità e dalla privatizzazione pervicace. Così pervicace che cova il desiderio di annullare nei fatti l’esito del referendum sull’acqua, un pronunciamento chiaro come un esclamativo evangelico. C’è sempre un’emergenza che può consentire alla tecnocrazia di temperare il calore della democrazia, magari con una gelata di diritti sociali, e con un’afasia collettiva che ci impedisce di dire che si è stanchi di avere paura, stanchi di aspettare il futuro come una minaccia oscura, stanchi di non poterci più neppure difendere dalla palude di questa spoliticizzazione obbligatoria che rende facile l’accrescersi del potere e del sapere specialistico della finanza. Quelli che ci hanno precipitato nelle voragini della creatività speculativa e talvolta persino rapinatrice sono gli stessi che oggi dettano le ricette per salvarci, la malattia ci viene proposta come medicina, e le grandi lobbies affaristico-finanziarie ( in primis le grandi banche) dopo un brevissimo purgatorio mediatico-giudiziario nel nord America sono tornate in cattedra, la crisi che investe il denaro è come una slot-machine, siamo tutti clienti ossessionati dal gioco di borsa, ma mentre cresce la povertà e il ceto medio vacilla paurosamente verso il piano inclinato di un sempre più veloce impoverimento, mentre questa parola dal suono arcaicamente sociologico – “povertà” – torna ad essere cuore pulsante della questione sociale, c’è chi alimenta la crisi per arricchirsi e per dominare, per strutturare e naturalizzare una diseguaglianza cresciuta in modo esponenziale. I proprietari privati della raccolta e della distribuzione del denaro, i signori delle multinazionali e delle società di credito e di investimento, diventano soggetti irresponsabili, non sono chiamati a rispondere dei loro fallimenti, voglio dire che non sono chiamati dalla politica (il lavoro dei giudici se interviene attiene comunque ad un’altra dimensione): la politica può tagliare gli artigli alla speculazione? La democrazia, con le sue regole di trasparenza e di controllo sociale, può bonificare i territori spericolati della finanza e dell’economia? Quelli della scena pubblica, le classi dirigenti nel loro complesso, le forze intellettuali, le giovani generazioni, ma anche le soggettività più fragili e vulnerabili, tutti questi sono titolati, ciascuno per il suo, a chiedere di capire perché la Stato stia progressivamente smaltendo funzioni e competenze delegandole al mercato, perché stia svuotando la natura sociale del nostro patto costituzionale, perché stia dismettendo l’etica del primato dell’interesse collettivo stimolando una pratica della inflazionata sussidiarietà intesa come il pubblico che si dona al privato? Si può discutere di dove stiamo andando, e se sia la direzione giusta per salvarci? Oppure il dibattito è un’esclusiva degli iscritti al Club dell’austerità, dove la destra planetaria (quella finanziaria, petroliera e spirituale) programma i salassi sociali e lo smontaggio del Welfare novecentesco e dove è previsto che la sinistra si modernizzi, possibilmente suicidandosi. Si può esprimere dissenso, si può dubitare dell’efficacia delle politiche di contenimento del debito pubblico costruite riducendo i redditi del ceto medio e con il razionamento delle risorse destinate alla protezione sociale, alla cura delle persone, alla qualità della vita? C’è spazio, in questo passaggio storico che è un po’ un momento della verità per le pulsioni illiberali del liberismo, per un pensiero politico-programmatico alternativo a quello dominante, un pensiero critico che non cede alle lusinghe dei populismi e dei primitivismi ma che non rinuncia a dare un giudizio di valore su questo capitalismo finanziario che si nutre e s’ingrassa divorando il proprio medesimo corpo preda di convulsioni. Intanto la natura della crisi è stata pericolosamente occultata con le maschere dei risentimenti etnico-nazionalisti. Invece di parlare delle banche d’affari e dei loro regolamenti (si fa per dire), in Europa è stato tutto un fiorire di dispute in stile “lombrosiano”. Il carattere germanico, la psicologia degli inglesi, la grandeur dei francesi, la furbizia dei greci: una significativa rassegna dei principali stereotipi e pregiudizi con cui convive il nostro europeismo senza Europa. Sembrava la saga delle vecchie ruggini. Invece di chiederci con semplicità perché, se siamo assai meno indebitati degli Stati Uniti, siamo così vulnerabili ai colpi della speculazione. No, noi chiacchieriamo sulla necessità di incrementare ritmi di produttività per merci che hanno sempre meno mercato, conveniamo sulla necessità di far dimagrire lo Stato di diritto per fare ingrassare lo Stato di eccezione, possiamo congedarci persino dalla concertazione con i sindacati (peccato, proprio ora che il sindacati forse volevano fare un po’ di narrazione sulla condizione materiale di lavoro).
Non è stata questa una prova documentale del fallimento dell’Europa costruita sulla moneta e sul liberismo? Una tela di Penelope è stata l’Unione. Un continente di protettorati e di banche, di lobbisti e di burocrati. Non una comunione, non un patto di convivialità nel pluralismo, ma una moneta, più una rete di apparati allocati tra Bruxelles e Strasburgo. Insomma, la scacchiera mutevole degli interessi contingenti dei singoli stati mette in piedi una soggettività politico-istituzionale assolutamente afona nonché ambigua.
Dove sono gli Stati Uniti d’Europa?
Non chiamiamo Europa la destra europea, la coppia Merkel-Sarkozy
Il riformismo neo-liberista della sinistra europea ha fallito la propria missione: quella di temperare le febbri della globalizzazione e di dare coscienza sociale al Capitale. E oggi il tema della sinistra torna discriminante.

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