martedì 15 giugno 2010

ATTACCO AL LAVORO

Si spingono in basso salari e condizioni di lavoro per allinearli ai Paesi emergenti.
Arriva la nuova “metrica del lavoro” con il computer che controlla.
 
Il Governo e Confindustria continuano la loro incessante opera di stravolgimento del mondo del lavoro, demolendone i più elementari diritti. L’ennesima ghiotta occasione è data dallo stabilimento della FIAT di Pomigliano, che a detta dell'astuto Marchionne è diventato non più produttivo, quindi, o si delocalizza in un paese dell'est europeo, o si deve procedere con un immediato aumento della sua capacità produttiva.
Aumento della capacità produttiva significa da parte di FIAT imporre un contratto aziendale, derogando di fatto i principi del contratto nazionale e del diritto di sciopero.
Nel dettaglio le condizioni che FIAT utilizza come elementi indispensabili per il mantenimento dello stabilimento sono: l’implementazione di 18 turni settimanali sulle linee di montaggio, 120 ore di straordinario obbligatorio, riduzione delle pause dagli attuali quaranta minuti a trenta per ogni turno, possibilità di comandare lo straordinario nella mezz’ora di pausa mensa per i turnisti, possibilità di derogare dalla legge che garantisce pause e riposi in caso di lavoro a turno, sanzioni disciplinari nei confronti delle Organizzazioni sindacali che proclamano iniziative di sciopero e sanzioni nei confronti dei singoli lavoratori che vi aderiscono, fino al licenziamento, facoltà di non applicare le norme del Contratto nazionale che prevedono il pagamento della malattia a carico dell’impresa.
Non è tutto. Ben 19 pagine sulle 36 del documento Fiat consegnato ai sindacati a fine maggio sono dedicate alla "metrica del lavoro."
Si tratta dei metodi per determinare preventivamente i movimenti che un operaio deve compiere per effettuare una certa operazione e dei tempi in cui deve eseguirli; misurati, si noti, al centesimo di secondo. Per certi aspetti si tratta di roba vecchia: i cronotecnici e l'analisi dei tempi e dei metodi erano presenti al Lingotto fin dagli anni 20. Di nuovo c´è l'uso del computer per calcolare, verificare, controllare movimenti e tempi, ma soprattutto l'adozione a tappeto dei criteri organizzativi denominati World Class Manufacturing (Wcm, che sta per "produzione di qualità o livello mondiale").
L´ideale nel fondo della Wcm è il robot, che non si stanca, non rallenta mai il ritmo, non si distrae neanche per un attimo. Con la metrica del lavoro si addestrano le persone affinché operino il più possibile come robot.

Sarebbe interessante vedere quante settimane resisterebbero a un simile modo di lavorare coloro che scuotono con cipiglio l´indice nei confronti dei lavoratori e dei sindacati esortandoli a comportarsi responsabilmente, ossia ad accettare senza far storie le proposte Fiat.
Un accordo, quello proposto dalla FIAT destinato ad azzerare la responsabilità sociale d’impresa in nome di una produzione destinata a saturare un mercato dell’automobile in profondissima crisi.
È possibile che la Fiat non abbia davvero alcuna alternativa. O riesce ad avvicinare il costo di produzione dello stabilimento di Pomigliano a quello degli stabilimenti siti in Polonia, Serbia o Turchia, o non riuscirà più a vendere né in Italia né altrove le auto costruite in Campania. L'industria mondiale dell'auto è afflitta da un eccesso pauroso di capacità produttiva, ormai stimato intorno al 40 per cento. Di conseguenza i produttori si affrontano con furibonde battaglie sul fronte del prezzo delle vetture al cliente.
È qui che cadono i veli della globalizzazione. Essa è consistita fin dagli inizi in una politica del lavoro su scala mondiale. Dagli anni 80 del Novecento in poi le imprese americane ed europee hanno perseguito due scopi. Il primo è stato andare a produrre nei paesi dove il costo del lavoro era più basso, la manodopera docile, i sindacati inesistenti, i diritti del lavoro di là da venire. Ornando e mascherando il tutto con gli spessi veli dell'ideologia neo-liberale. Al di sotto dei quali urge da sempre il secondo scopo: spingere verso il basso salari e condizioni di lavoro nei nostri paesi affinché si allineino a quelli dei paesi emergenti. Nome in codice: competitività. La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s´intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello.
È nella globalizzazione ormai senza veli che va inquadrato il caso Fiat. Se in Polonia, o in qualunque altro paese in sviluppo, un operaio produce tot vetture l´anno, per forza debbono produrne altrettante Pomigliano, o Mirafiori, o Melfi. È esattamente lo stesso ragionamento che in modo del tutto esplicito fanno ormai Renault e Volkswagen, Toyota e General Motors. Se in altri paesi i lavoratori accettano condizioni di lavoro durissime perché è sempre meglio che essere disoccupati, dicono in coro i costruttori, non si vede perché ciò non debba avvenire anche nel proprio paese.
Va anche ammesso che davanti alla prospettiva di restare senza lavoro in una città e una regione in cui la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ha già raggiunto livelli drammatici, la maggioranza dei lavoratori di Pomigliano – ben 15.000 se si conta l´indotto – potrebbe anche essere orientata ad accettare le proposte Fiat in tema di organizzazione della produzione e del lavoro. La disperazione, o il suo approssimarsi, è di solito una cattiva consigliera; ma se tutto quello che l'azienda o il governo offrono è la scelta tra lavorare peggio, oppure non lavorare per niente, è quasi inevitabile che uno le dia retta.
Occorre pure trovare il modo e la forza di dire anzitutto che le condizioni di lavoro che Fiat propone loro sono durissime. E, in secondo luogo, che esse sono figlie di una globalizzazione ormai senza veli, alle quali molte altre aziende italiane non mancheranno di rifarsi per imporle pure loro ai dipendenti.
Siamo sicuri che il futuro passi attraverso un aumento della produzione di auto?
Si è parlato molto di conversione dello stabilimento di Pomigliano ma nulla è stato fatto, l’auto sembra rimanere ancora un grande affare, ecco perchè l’industria delle energie alternative stenta a decollare.
Stiamo assistendo inermi alla sconfitta della stessa idea di come affrontare le sfide del futuro.
Le urgenze di politiche destinate ad uno sviluppo sostenibile basato sulla crescita economica e sociale capace di integrare qualità della vita ed equità sono state cancellate da ricatti che hanno il solo scopo di mercificare sia il lavoro che il lavoratore.
La mancanza di alternative non è caduta dal cielo. È stata costruita dalla politica, dalle leggi, dalle grandi società, dal sistema finanziario, in parte con strumenti scientifici, in parte per ottusità o avidità.
Toccherebbe alla politica e alle leggi provare a ridisegnare un mondo in cui delle alternative esistono, per le persone non meno per le imprese.
Non dobbiamo lasciare solo l’unico sindacato in grado di opporsi a questa dirompente strategia anti-sociale, tutte le forze di opposizione sia politica che sociale devono mobilitarsi per dare una nuova voce ai diritti del lavoratore che rischia sempre più di essere alienato.

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