giovedì 10 aprile 2014

SALARIO MINIMO

In Italia? Di cosa parliamo?
Nelle azioni per il lavoro di Renzi, confermata al convegno degli industriali dal vice ministro Enrico Morando, liberal del PD, troviamo la proposta del salario minimo.
In Italia quasi tutti i lavoratori dipendenti hanno un contratto nazionale e un livello salariale definito dall’area professionale di appartenenza.
Le dichiarazioni di Morando fanno capire che il Governo sta operando per svuotare il contratto nazionale di lavoro attraverso una norma secondo la quale tale contratto agisce solo nel caso non fosse possibile un accordo di secondo livello che, secondo il vice Ministro, si può realizzare a «livello di gruppo, azienda, distretto, territorio» incentivando la produttività.
Non spiega, però cosa c’entra il salario minimo con la produttività.
Il salario minimo, infatti, è stato introdotto laddove sono stati eliminati i contratti nazionali: adottarlo in Italia produrrebbe, di fatto, una riduzione dei salari, perché verrebbe fissato a una cifra inferiore a quella prevista dagli attuali contratti.
In Italia non ci sono lavoratori che non siano coperti dal contratto nazionale, sicché la proposta determinerebbe la riduzione media dei salari italiani e, quindi, un'ulteriore caduta della domanda interna.
E, poi, cosa si intende per compenso orario minimo, sapendo che nell’Europa a 29 si passa da € 8,50 euro della Germania ad € 0,95 della Bulgaria, fino a 1,06 della Romania, 1,71 della Lettonia, 1,76 della Lituania,1,90 della Estonia, 1,94 della Slovacchia, 1,97 della Ungheria, 2,21 della Polonia, 2,29 della Croazia, 2,92 del Portogallo, 3,35 della Grecia, 3,91 della Spagna?
Dove si colloca la proposta del Governo sul salario minimo e sul compenso minimo orario?
Nei principali Paesi europei si attesta sotto al 50% del salario "mediano"( cioè quello percepito dai lavoratori che si trovano al centro della distribuzione dei salari).
La verità è che deregolamentare il rapporto di lavoro e sottopagare i lavoratori, è diventata una cultura, direi una ideologia fatta propria anche da esponenti del Partito Democratico.
Da anni sentiamo dagli industriali e da esponenti della destra questo mantra, oggi auspicavamo un cambiamento che non vediamo.
Coloro che additano sempre i lavoratori come fattori di costo che impediscono la competitività sono ciechi e silenti nei confronti delle imprese che perdono mercato perché prive di una strategia industriale adeguata ai tempi attuali. Sono inoltre sotto capitalizzate perché storicamente il capitale di rischio è uno sconosciuto per gli imprenditori nostrani; basterebbe guardare i mezzi propri negli stati patrimoniali dei bilanci aziendali, che danno un gettito alle entrate tributarie indecentemente minore rispetto a quanto dato dal lavoratore.
Ognuno faccia la propria parte, ma la si smetta di infierire sui lavoratori.
I capisaldi del contratto di lavoro nazionale vanno mantenuti: l'inquadramento professionale, il salario di riferimento, l'orario di prestazione, le regole negoziali, le tutele su diritti, salute, sicurezza, maternità.
Il necessario recupero di competitività delle imprese, per quanto imputabile al rapporto di lavoro, lo si stabilisca nella contrattazione di secondo livello sui modelli organizzativi, sulla flessibilità della prestazione e sulla retribuzione complementare di risultato. Due livelli di contrattazione distinti ed in equilibrio tra di loro.
Contrastiamo il pensiero unico che indica nella ricetta della precarietà e dell'impoverimento dei lavoratori, il mezzo per essere competitivi e uscire dalla crisi. Questa ricetta ha portato l'Italia negli abissi della crisi e nella perdita di competitività internazionale, bisogna cambiare registro da subito: più sostegno alla domanda, più investimenti.

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